"L’ombra dello scorpione" di Stephen King: la pandemia al tempo del ketchup - OUBLIETTE MAGAZINE

2022-04-19 07:37:08 By : Ms. Jenna Chang

Alcuni passi della scrittura kinghiana non sono necessari, ma indispensabili. Diversamente la scrittura non sarebbe di Stephen, ma di un qualche suo epigono.

Colgo, come si fa con un piscialetto, nel Capitolo 2: “… la timidezza finisce per diventare un sistema di vita. Si rimise in cammino. La pillola, comunque, non aveva funzionato. Si vede che qualcuno del controllo di qualità del vecchio stabilimento Ovril si era addormentato sui pulsanti. O così, oppure si era dimenticata di prenderla una volta, e poi si era dimenticata di essersene dimenticata.”

La battuta dell’Ovril è piaciuta anche alla protagonista, che la ripete, integrandola con una terza opzione: “… a voialtri, alla mensa dell’università del New Hamshire, danno da mangiare qualcosa che rinforza lo sperma…”

Nascendo, la criatura si troverà in una stupefacente distopia. Il mondo sarà quasi del tutto sventrato e ribollito a fuoco lento, e divorato dalla Morte, causa la solita pandemia terracquea. Per il resto, andrà tutto bene.

Non proprio solita: muoiono quasi tutti, in America e forse anche mondo.

Come per gli altri romanzi di Stephen, a parte una tragedia in due sbattute (di una Chevrolet, guidata da un inconsapevole paziente zero, “contro le pompe di benzina sul salvagente rialzato”), la storia va dritta come un camioncino diesel piuttosto lento, ma non atarassico, anzi…, che punta direttamente in bocca all’irrimediabile destino di noi tutti, autore e lettore compreso.

King si rivela ad ogni pagina come uno degli scrittori più espressivi che abbiano mai tentato di svelare al mondo l’effetto che le cose scatenano per come appaiono. Ogni atto porta con sé tutti gli altri, poiché il cosmo è quel campo unico in cui l’onda energetica si sposta, senza mai cessare di andare da alcuna parte. Panta rei, tutto ondeggia da qualche parte e King lo trovi sempre a cavallo, sulla cresta di quell’onda.

Ci sarà sicuramente chi potrebbe dirmi Dici così perché non hai mai letto…, e poi citerebbe quell’autore o quell’altro. Posso anche immaginare un mio io passato o uno futuro che si erge a critico in tal senso. Ho letto un sac e una sporta di libri, eppure questa sensazione di spettatore di un evento preparato apposta per me, e per me solo, non ce l’ho con alcun altro autore.

Tutto è soggettivo, e nessuno forse lo è più di King, senz’altro ma, prima di cianciare, si leggano le seguenti righe, in cui è descritto l’incontro fra un poliziotto e un agente assicurativo che si becca dal primo una multa per eccesso di velocità: “Trent l’accettò umilmente, poi fece ridere Joe Bob tentando di convincerlo a sottoscrivere una polizza sulla casa e sulla vita. Joe Bob stava benone; l’idea della morte era l’ultima cosa che gli passasse per la testa. Eppure era già malato, al distributore Texaco di Bill Hapscomb non aveva fatto il pieno solo di benzina. E a Harry Trent non diede soltanto una contravvenzione per eccesso di velocità.”

Tralascio la sequela in cui viene descritta la dinamica dell’epidemia scatenata da Harry.

Il lettore inizia a sentire la necessità di lavarsi le mani e al contempo il bisogno di continuare a leggere il capitolo, stando bene attento a non mettersi le mani in faccia o a stropicciarsi gli occhi. La forza di King risiede nel non aver timore di straparlare o di sembrare inopportuno, sapendo essere icastico e cogente. Ogni cammino da effettuarsi in sua compagnia è lungo e tribolato. Occorre perciò economizzare le risorse. E se inquina un po’ l’atmosfera, l’importante è giungere alla meta e poter poi rincasare.

“… le corsie degli ospedali sono piene e non accettano le visite…”

“… c’è un sacco di soldati in circolazione…”

“… l’esercito ha combinato un casino con una di quelle provette…”

“… l’ABC trasmetteva solo vecchi programmi registrati…”

“… le pubbliche riunioni erano state cancellate momentaneamente dai programmi…”

 “… i relativi divieti sarebbero stati abrogati non appena fosse stato distribuito il vaccino…”

“… incontri di baseball non se n’erano giocati…”

“… i cadaveri venivano rimossi a vagonate dagli ospedali…”

Una tragica distopia, che per fortuna non potrà mai…

Focalizzo l’attenzione sul Capitolo 24, che brilla, o meglio, oscura per la sua brevità: 26 righe, quasi tutte portatrici di angoscia e raccapriccio; cito solo le ultime: “Nella cittadina, ad eccezione dei fruscii e dei bisbigli degli animaletti e dei tintinnii delle campanelle di Tony Leominster, regnava il silenzio. E il silenzio. E poi ancora il silenzio.”

Segno, in attesa di capirla più avanti, le frasi finali del Capitolo 26, ove si sta parlando di Quello delle Pattumiere, noto piromane: “La pelle gli stava già diventando di un rosso aragosta. Non la sentiva, anche se quella notte lo avrebbe tenuto sveglio in una sorta di esaltazione. Lo aspettavano fuochi più grandi e migliori. Il suo sguardo era dolce e gaio e del tutto folle. Era lo sguardo di un individuo che ha scoperto il grande asso del suo destino e ci aveva messo su le mani.”

Nonché quelle del Capitolo successivo, quando Larry camminò in un modo non facilmente scordabile: “Tante cose erano cambiate, tante cose erano fuori posto, che ora New York sembrava quasi una città di fantasia di un racconto di Tolkien. Un uomo era stato impiccato a un lampione a un incrocio tra la Cinquantesima e a Cinquantatreesima, e aveva al collo un cartello con su scritto una sola parola: Sciacallo.”

In un libro di Primo Levi lessi che dopo qualche settimana la gente si abituava alla nuova realtà del lager, pur non dimenticando il recente passato di libertà. Una cosa simile tocca a Frannie, incinta di tre mesi, senza più nessuno da dover sopportare e su cui contare: “Gelati e macchine per scrivere elettriche appartenevano al passato. L’idea le diede una punta di nostalgica tristezza, e si sorprese di nuovo a domandarsi con un senso di profondo stupore come poteva essersi verificato un simile cataclisma nel giro di poche settimane soltanto.”

La sua bestemmia risuona solitaria e giustificata: “Dio, fai proprio schifo.” Nessuno poteva aiutarla nelle sue voglie “di scendere alla spiaggia, trovare un bel pezzo di fuco e rosicchiarlo” e, di lì a poco, “tramezzini di cipolla. Spalmati di soffice cren.”

Ora “chi l’avrebbe aiutata a mettere a mondo il bambino”? Che domanda assurda, ormai!

Fran decide di partire con una “Honda” (il solito viziaccio di King di citare le marche!) “La sai portare una Honda?”, insieme a un ragazzo di nome Harold, un “povero ciccione” tra l’altro cacasotto nel vero senso della parola, che ha lanciato l’idea, e che paventa la necessità di armarsi, “Perché non esistono più né polizia né tribunale e tu sei una donna e sei bella e certa gente… certi individui… potrebbero non essere gentiluomini. Ecco perché…”

Fran si spaventa, dato il suo stato: “Sono-incinta”.

E se “avesse detto a chi intendeva violentarla: Ti prego di non farlo perché Sono-incinta, ci si poteva ragionevolmente aspettare che lo stupratore ribattesse: Gesù, signora, mi scusi andrò a violentare un’altra?”

Stephen King è anche lo scrittore più empatico che abbia mai letto. Uno degli scrittori, forse? Pochi come lui riescono a simpatizzare coi suoi personaggi e con il lettore. Siamo tutti in questa bagnarola, sembra dire.

Egli sa penetrare come forse nessun altro dentro al corpo degli Altri: “… scese in fretta le scale, con la Coca che le ballava nella pancia su-giù- in tondo, iiiichh…”, e “sapeva che avrebbe rigettato da un momento all’altro”, per vari motivi: “per via del caldo e della Coca e della gravidanza”.

In tale istante King e il sottoscritto siamo Frannie (entrambi al terzo mese di gravidanza). Si tratta di un entanglement a tre, che può diffondersi come una pandemia, a tre mila, milioni, miliardi.

Stu s’imbatte in un cane, Kojac, e nel suo padrone, Glen Bateman, che lo invita a sgranocchiare del caviale, che, nel dispiegare una tovaglia, gli dice: “L’ho presa lì. Non credo che i battisti ne sentiranno la mancanza. Sono andati tutti alla casa di Gesù.” Questo “vecchio pagano che comunica con la natura”, Kojac “stanò un fagiano che Stu vide schizzare via dalla boscaglia: pensò con una certa sorpresa che forse, forse, sarebbe andato tutto bene. In qualche modo tutto bene.”

Kojac apparteneva a “una donna meschina, piena di preconcetti. Lei è morta e il suo cane è sopravissuto, il che smentisce l’idea che non c’è giustizia a questo mondo.”

Per accompagnare il caviale c’è una sorpresa: “una confezione da sei di birre, tutta gocciolante.”

Che buona! come gusta! La frase che segue mi ricorda una frase analoga di un racconto di Stephen, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, pubblicato quattro anni dopo: “Quella birra era calda come piscio, ma era lo stesso la più buona che abbia mai bevuto in vita mia.” Ora non so quanto essa fosse gelida (penso di sì, era rimasta a refrigerare nel ruscello), ma “Stu pensò che non aveva mai assaggiato una birra più buona di quella.”

Nel suo solito “lunghissimo monologo” che in questo mondo con così pochi uomini, cani e cavalli, con tante vacche e renne, con un numero prima in calo e poi in ricrescita di topi, insomma, in questa nostra miseranda società, sarebbe rinata prima o poi la Storia. Basta immaginare che in una città ci sia almeno un tecnico dell’elettricità, in grado di farla funzionare: “Potrebbe semplicemente sapere quali interruttori schiacciare quando l’impianto si spegne automaticamente.”

Quella città, chiamiamola A, oppure “Boston”, diventerebbe in un qualche modo nuovo. E se poi ci fosse una città B, chiamiamola “Utica, New York” dove non fosse sopravvissuto quel tecnico. “Nel frattempo, di notte hanno freddo, mangiano scatolette, sono avviliti. Arriva l’uomo forte. E loro sono contenti che sia arrivato perché sono confusi, hanno freddo, sono ammalati.”

“Pensa un po’. Invece di sei o sette potenze nucleari mondiali, potremmo ritrovarci con sessanta o settanta, solo qui negli Stati Uniti.”

Intanto, in carcere, il povero “Lloyd Henreid era in ginocchio. Mugolava e sorrideva.” Ma intanto aveva fame. Non si voleva perdere d’animo: “era riuscito a beccare con una ciabatta uno scarafaggio e se lo era mangiato vivo: lo aveva sentito che si divincolava freneticamente dentro la sua bocca finché non lo aveva spezzato in due con i denti. In verità non era tanto male, molto più saporito del topo. No, non voleva mangiarsi Trask. Non voleva diventare un cannibale.” Ma meditava vendette. E mentre sussurrava al suo vecchio pard, “non si era neppure accorto che aveva l’acquolina in bocca.”

Un certo “Flagg, con due g.” lo incontra, si presenta e dice “tutte le cose complicate che lui sentiva, e le aveva espresse in poche frasi.”

La fame di Lloyd “si era all’improvviso trasformata in un tipo di fame diverso”.

Flagg lo fa uscire di cella.

“Lloyd si volse e fissò quel volto sorridente con qualcosa che non era solo gratitudine. Fissò Flagg con qualcosa che poteva essere amore.”

Tocca ora al sordomuto Nick. Solo. Più che mai. Sogna una voce che gli chiede d’inginocchiarsi e in cambio… Lui “dice No”. E comincia a sentir freddo. Sogna poi dell’avena, un campo pieno di quel color verde, “vegetazione che cresce” e sente della musica: “Allora, è di questo che si tratta.”

Parte, fottendo (a chi non è più) una bici adatta alla sua altezza non eccelsa. E se ne va chissà dove, dopo aver fatto il pieno di vari oggetti, fra cui numerose munizioni. Ormai la proprietà è davvero privata: dai suoi vecchi proprietari. È un comunismo fondato sulla solitudine: “… rimase a guardare in alto verso il cielo, a osservare una pioggia di meteore che graffiavano la notte con il loro freddo fuoco bianco. Pensò che non aveva mai visto niente di così bello.

Qualunque cosa fosse quello che lo aspettava, era contento di essere vivo.”

Larry e Rita: lui giovane, lei no. Lui grida: “Rita, stai bene? Svegliati, Rita!” Uhm…

“Fissò quella faccia morta per un tempo che parve lunghissimo.”

Sorge un interrogativo: “Per quanto tempo sono rimasto a dormire con lei dopo che è morta?”

Rimpianti di una compagnia che non sempre risultava gradita.

“Ma io stavo andando da lei per scoparla, gente!”

È andata come doveva andare. Poteva andare peggio?

“No, il peggio è essere solo. Rimanere da solo.”

D’altronde, a pagina 222 del Capitolo 33, sono indicati i sette numeri umani: 1 = santo/a; 7 = guerra; dei rimanenti 5, indico solo 4 = “ed edificheranno una piramide”. Non lo dice uno qualsiasi, ma Bateman, amico di Kojac e solidale di Stud. Per gli altri 4 occorre leggere il libro.

Nei sogni di alcuni superstiti si affaccia la figura di Mother Abagail, detta affettuosamente Abbie, oppure solo Mother, una negretta ultracentenaria, amorevole, che chiede loro di essere raggiunta, e di un misterioso uomo nero, dai tratti negativi.

Puntualmente Nick e altri fuggiaschi giungono nella sua città e lei, che li aspettava, racconta il motivo della sua chiamata onirica. È una storia che non è dissimile a quella che anni dopo ispirerà It. Ralph “abbassò gli occhi impacciato a fissarsi le scarpe…”, tale è il gesto remissivo del ragazzino di fronte all’autorità degli adulti, così frequente sia in It che in questo romanzo. È una resa a un’evidenza superiore: Abbie vuole essere ascoltata e che si seguano le sue indicazioni, che hanno un’origine divina. Quella gente sarà alle prese con un mostruoso essere che “è l’incarnazione di tutto il male vero che c’è al mondo”, non un concetto, ma una persona altamente distruttiva, un nemico e al contempo un servo di Dio, non è Satana, ma è un suo amico o, meglio, un suo socio in affari, che ora vive ad Ovest, sulle Montagne Rocciose, ma che prima o poi si sposterà a Est, perché li vorrà incontrare.

E chi, come Nick, non crede in Dio? Nessun problema, Lui crede anche negli atei.

Abagail, un nome che un reggiano facilmente ricorda: ah bagaj! – che significa ah birba!, e Abagail, nonostante la vecchiezza, ha proprio gli occhi di una monella.

Nick, tacitamente, è stato eletto capo della combriccola. Strano! “Non si prendevano ordini da un sordomuto; pareva una battuta di cattivo gusto.” Lo stesso capiterà di lì a qualche anno a Bill Tartaglia, che sarà il tacito e balbuziente capo del Clan dei Perdenti, l’unica formazione in grado di sconfiggere quel Mostro Cattivo. Per questo e per altro, questo romanzo pare un prequel di quell’altro.

Nick pare il prediletto di Abbie, forse in quanto non credente. Lei stessa ha uno strambo rapporto di amore-odio verso Dio, le cui mire non capisce affatto, eppure ha deciso di obbedirGli in tutto, per il bene (finale) comune.

Un’immagine: Abagal osserva la ragazza di nome June: “Quella ragazza aveva un bel paio di fianchi, e tra le cosce doveva avere un portale a regola d’arte. Avrebbe potuto mettere al mondo tutti i marmocchi che voleva.” A Reggio si direbbe: Li lee las lasa guarder!: quella lì si lascia guardare!

Anche Fran, come tutti, produce analoghi sogni. Quel che teme di più è sempre lui, l’essere infetto, che teme possa far scempio del cadavere dell’amato padre ma che, e riesce a capirlo anche lei, punta dritto al suo nascituro, a cui Fran sta raccontando per iscritto la storia di “come fosse scoppiata un’epidemia in un posto chiamato Ogunquit”, cittadina che esiste davvero, nella nostra realtà, nello stato del Maine, ovviamente, e che fu fondata due anni dopo l’uscita del romanzo, 892 abitanti nel 2010, nominata migliore città yankee costiera del 2016.

Il cagasotto Harold è ora un giovanottone alto, colto e problematico, non si sa se ancora aspirante scrittore. Anche Bill di It lo era: alto e (un po’ meno) problematico, e scrittore acclamato. Harold, come il Ben di It, da obeso che era è diventato quasi magro. Ben è uno dei buoni, Harold ancora non si sa bene, come non si può ancora dire di Nadine.

It e La coda dello scorpione hanno una facezia in comune. Mancano, almeno nelle edizioni italiane, dell’Indice.

A questo punto la mia vicenda personale con Stephen King assume dei contorni relativistici: è esistito prima It oppure L’ombra dello scorpione (nell’originale è: The stand)? E qui il punto dell’autore diverge da quello del lettore. Per me prima uno, per lui prima l’altro.

A tessere una specie di tela narrativa della storia è Fran che, narrando le varie vicende reali e oniriche dei suoi compagni di viaggio, a un certo punto scrive, a proposito dei sogni: “I punti di somiglianza sono quasi troppi per dilungarcisi (che è poi la mia maniera ‘letteraria’ per dire che comincio ad avere le dita intorpidite).”

Similmente si comporta King, che prima tenta di usare maniere letterarie, ma che poi traduce in un linguaggio figurato molto alla mano. Anche se lui, che non deve montare in sella a un motorino e non deve attraversare gli States, il tempo di dilungarsi lo trova sempre. Agh’è pió tèimp che véta! – c’è più tempo che vita, diceva mamma.

Leggendo un capitoletto imperniato sul cammino del predetto piromane, detto Quello delle Pattumiere, mi sorgono delle idee strane che sto sviluppando sempre di più. Il presente libro precede di qualche anno It, ma lo segue a ruota di alcune settimane, come mia lettura. È la premessa che mi porta a dire che cambiano gli ingredienti, ma la zuppa è la stessa: sla n’ē mia sópa l’ē pân bagnê. E, detto più arsan ancora: tra corêr e scapêr! Chi corre scappa.

Quello delle Pattumiere è uno dei prescelti dall’uomo nero per fare quello che ci sarà da fare. Similmente, in quegli anni It individuerà in Henry Bowers e in Tom Rogan i suoi aspiranti killer, quelli che dovranno fare il lavoro sporco, quello manuale, per intenderci.

Quello delle Pattumiere dovrà incontrare il suo uomo nero a “Cibola, la Città favolosa, Sette in Una”. Ora, ammirando il Sole, Quello delle Pattumiere pensa che “Dio era il più grande incendiario dell’universo.” E qui scatta la prima sinapsi.

“Ti conferirò un’alta carica nella mia artiglieria. Tu sei l’uomo che fa al caso mio.”

Questo gli aveva sussurrato l’uomo nero. Beh, sono soddisfazioni!

“Darei la vita per te! Darei l’anima per te!”

Quello delle Pattumiere (d’ora in poi lo chiamerò affettuosamente Pattume) è felice: “C’era mai stato qualcuno che avesse bisogno di lui, prima d’allora?”

Un vecchio bavoso gli dà un passaggio in auto, anche lui affiliato all’uomo nero, che con toni euforici auspica l’avvento del suo oscuro capo, che quando ci sarà lui, caro lei, sarò “rimesso ordine in casa nostra” e “non ci sarebbero più stati necrofili, hippies e liberali dal cuore tenero”, per cui deduco che l’elettorato dell’uomo nero sia fascista e qualunquista (o semplicemente repubblicano). E Dio? Non mi pare di sinistra, semmai di centro o, al massimo, di centro sinistra.

Ed ora estraggo a metà la mia idea: Dio è una luce, La Luce, l’uomo nero è una forza fisica e attrattiva. In realtà è un uomo, e si chiama Randall Flagg, il nuovo amichetto di Lloyd, che si ritrova a essere il suo sgherro di fiducia, senza che neanche se ne accorga. A complicare la faccenda è che quell’anima in pena di Nadine, che si trova dalla parte di Mother Abagail, innamorata di Larry, e, in modo che nemmeno lei sa come definire, se non terribilmente, di Flagg.

La discussione successiva fra Stu e Glen assomiglia a quella che forse ci fu fra Lenin e Trockij, o fra Simone da Pantano e Schiatta Amati, al momento alleati e poi chissà. Nel discorso dei due, specie in quello di Glen, entra la politica, quella cosa nera che mia mamma definiva al brôt nimêl. Il porco. E si parla di un’eventuale (e provvisoria) dittatura, e di come sfruttare populisticamente il carisma della Mother.

Ah, ho notato una cosa. King a volte è un manicheo di tipo transeunte. Panta rei, anche la virtù e il valore. Ma ora sto osservando un fatto: tra i buoni qualcuno sta rimeditando il proprio ruolo nel conflitto, mentre i cattivi mi paiono più coesi. È sempre così, quando si è all’opposizione.

Siamo alla finale del mistico Superbowl: da una parte c’è la squadra di Mother Abagail, dall’altra quella di Randall Flagg. Non si tratta di Dio versus il Diavolo, ma di un confronto fra due loro rappresentanti in terra. C’è una frase che mi colpisce però, quando qualcuno dice che Flagg è “il nome che sta usando questa volta” quel diabolico essere. Mentre Mother è una specie di delegata. Forse qualcuno è entrato davvero in Flagg, nel suo corpo, mentre nessuno è entrato in quello di Mother, ma Altrove.

“Ma se Mother Abagail è qui allora lui è lì.”

I due enti sono entangled, coinvolti, seppure a distanza, e opposti.

In It, King aveva sparso i suoi horcrux in quasi tutti i buoni, ma soprattutto in Bill, il balbuziente aspirante scrittore. In questo libro, a me pare egli si dissimuli principalmente in Nick il muto, fra i buoni, e in Harold, sempre sorridente e inquietante. Come sorride in genere Flagg, ed anche Lloyd. E non ha più foruncoli (e presumibilmente non si caga più addosso).

Una frase notevole, a pagina 402 del Capitolo 42: “Il diario è il libro mastro, dove si tiene conto dei debiti, dei crediti riscossi e degli interessi accumulati. E dove alla fine tutti i conti vengono pagati.” Quindi, scrivere è esigere, descrivere una partita doppia, dei dare e degli avere. Alla fine, si dice che i conti tornano. Chissà se la pensava così Guido Morselli, dopo aver terminato di scrivere il suo Dissipatio H.G.

Interessante il successivo passo sulla razionalità. Glen suppone che l’era del razionalismo sia finita. E che le irrazionalità (i sogni premonitori, le deleghe divine e demoniache) siano reali. Allora la scienza umana (quella sociale in primo luogo) ruzzola dal piedistallo e non rimane che affidarsi alla magia bianca di Mother Abagail. Purtroppo il discorso è destinato a infrangersi quasi sul nascere, poiché la voce di Glen “fu sul punto di rompersi, e lui abbassò in fretta gli occhi.”

Alla fine del Capitolo 42, l’autore entra nell’animo di Kojac, e anche nei suoi sogni, ma il fatto non sorprende, quanto la pre-visione che ha del futuro: il cane scamperà parecchi anni dopo il decesso del proprio padrone. È la prima volta che capita nel romanzo, ma già è capitato, anzi, capiterà in It. Tutto è stato scritto nel destino di ognuno e King non fa che trascriverne gli eventi.

Un’altra costante kinghiana: il citare l’ex presidente Nixon in termini che si fa molta fatica a definire lusinghieri: in questo romanzo, finora, due volte; la cosa capitò anche in Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank.

Nadine, rifiutata da Larry, ora convive con Harold, a cui si offre fino a un certo punto, perché il suo frutto più succoso è destinato a quell’Altro. I due convivono in un luogo che è sospeso fra i due mondi opposti. Chissà!

Mother è una vecchietta comprensiva e arcana, molto sfuggente (infatti sparisce all’improvviso, per espiare certe sue colpe. Ricomparirà? Chissà!). E Flagg, com’è? Basta chiederlo a Tom il semi-idiota: “Ha l’aspetto di uno qualunque che si incontra per strada. Ma quando sogghigna, gli uccelli cadono morti dai fili del telefono. Quando ti guarda in un certo modo, la tua prostata marcisce e la tua piscia brucia. L’erba ingiallisce e muore quando lui sputa. È sempre fuori. Viene fuori del tempo. Non conosce se stesso. Ha il nome di mille demoni. Il suo nome è Legione. Ha paura di noi. Noi siamo dentro. Lui conosce la magia. Può chiamare le volpi e vivere nei corvi. Ma ha paura di noi. Ha paura del… dentro.”

È lo stesso Tom idiota di sempre? No: “Io sono il Tom di Dio.” E lui sa che Mother è ancora viva, nel deserto, a espiare. Questa cento-ottenne ora nessuna riesce più a trovarla, nemmeno battendo palmo a palmo il territorio. È andata dove doveva andare, direbbe Totò.

But it’s all right, it’s all right: così recita American tune di Paul Simon, che dà la stura alla seconda parte del libro.

“Andrà tutto bene, disse lui.” Lui è Stu, e io di Stu mi fido. L’augurio viene ripetuto spesso, dentro e fuori del romanzo, quando serve per cercare a fatica di uscire qualcuno che è oppresso dall’angoscia.

Due, anzi tre indizi per la mia ricerca ontologica:

“L’uomo nero l’aveva penetrata e lei aveva freddo.” Si sta parlando di Nadine. Si dice che il diavolo abbia lo sperma gelido. Sarà vero?

Harold “se n’era andato in quel freddo e estraneo luogo dove Nadine non riusciva a seguirlo e che la spaventava.”

Quando i due terroristi fanno esplodere la bomba, Nadine vomita e “Harold la guardò con un certo disprezzo.”

Il commento di Harold è grave e sarcastico: “Dio è andato a pesca, e ci starà a lungo. È completamente buio. Al posto di guida c’è l’uomo nero adesso. Lui. Per cui abituatici.”

Ho cambiato idea sulla natura dell’uomo nero. Non è quel nero che credevo, ma molto di più.

“Sullo sfondo c’era sempre Flagg, il nero burattinaio, che reggeva i fili di Harold, di Nadine, di Charlie Impening, fose, Dio sa quanti altri.” Dio sa tutto, beato lui, io no.

Mi piacerebbe sottoporre la mia tesi, che si sta ancora formando e macerando al contempo, a Richard Panek, autore di un libro sulla gravità che mi son sorbito (come si fa un caffè corretto col cordiale) poche settimane fa.

Ancora un indizio: “Io penso che quella donna che sta morendo rappresenta la forza del bene tanto quanto Flagg rappresenta le forze del male. Io credo che qualunque sia la potenza che la controlla, l’ha usata per tenerci insieme.” Mother tiene i suoi figli insieme. Flagg li manderà, forse, allo sbaraglio.

Dopo lo scoppio della bomba, che causa la morte di una decina di cittadini, fra cui Nick, si assiste alla solita riunione plenaria del piccolo popolo, che dà l’impressione di essere un organismo ricco di contrasti e in continua evoluzione. Qualcosa di vivo, che sbanda a destra e a sinistra, ma va avanti e si riproduce, creando e distruggendo. Un microscopico cosmo umano.

Un villaggio minuscolo in una nazione minuscola in un pianeta minuscolo in un cosmo minuscolo. Se quest’ultimo è un frattale, tutto si assomiglia e nel suo intimo è celata la risposta alla domanda più grande, qualunque essa sia.

E se non lo è, perché Stu mai dice questa frase, che suona piena di buon senso?: “Dio vince sempre. Come i Boston Celtics.” E perché in fondo è così facile crederci?

Nadine, sopravvissuta a Harold, capisce (le viene detto) che Flagg non “sa tutto”. Non è Dio. Come non lo è Mother, la quale è sparita perché deve espiare per lunghe settimane nel deserto alcune colpe. Dio non ha colpe, perché le colpe sono verso di lui, non il contrario. È una bella sorpresa per l’umanità scoprire che nessuno fra i suoi componenti è la Verità. L’unica speranza è che sia una modesta parte di una Verità. Della Verità.

Verso la fine del Capitolo 55 è descritto l’amplesso di Flagg con Nadine, la splendida donna dai capelli canuti. Non mi pare giusto estrapolarne il paragrafo, perché per leggerlo basta acquistare il libro, oppure rinvenirlo in biblioteca. Ma anche perché occuperebbe una parte considerevole di questa mia reazione, che non sarebbe più mia, ma dell’altro Stephen. Basti dire che fra i due accade uno scambio termico non indifferente. E nulla più.

Un’espressione colorata viene in mente a Lloyd, e fors’anche all’autore reattore, nonché al lettore reagente, mentre tutti e tre osservano un tipino con shorts inguinali allontanarsi un po’ indispettita: “c’erano un sacco di pollastre come lei al mondo, anche adesso, dopo l’influenza, ci avrebbe scommesso che ce n’erano un sacco. Pronte a lanciare un sasso e nascondere subito dopo la mano. Cugina di primo grado delle femmine di quei ragni che si pappano il maschio dopo il rapporto.”

Forse anche “il tizio che cammina”, come viene chiamato Flagg, deve stare un poco accorto da ‘ste femminucce.

Un vago accenno ai Vietcong nel Capitolo 56 a pagina 573 mi fa pensare che:

In effetti qui, a Las Vegas, dal bieco uomo nero, c’è una tecnologia che dall’altra parte, a Boulder, se la sognano. E si sta preparando un attacco mortifero senza precedenti. Pardon, con infiniti precedenti.

Le due società differiscono anche nella struttura: Boulder è democratica, e lo sarà fino a quando il numero dei cittadini non sarà in esubero. Las Vegas è fondata sulla tirannia, per nulla illuminata, e gestita dalla polizia segreta che ha un unico obbligo, seguire le direttive di Flagg.

“… era come entrare in un appartamento all’aperto in Groenlandia. Eppure, quando Lloyd si accostò all’uomo nero, sentì perfettamente le radiazioni di calore che emanava.”

L’uomo nero (che è sempre a lettere minuscole) ha portato Nadine, la sua sposa incinta, a Las Vegas. “Il viso era inespressivo e assente, e guardarla dette a Lloyd una sensazione di gelo profondo.”

I propositi di Flagg riguardo la non troppo ridente cittadina di Boulder brillano per chiarezza: “Radere al suolo la città da cima a fondo. Voglio che sia come Amburgo e Dresda nella Seconda guerra mondiale.” Śiva sarebbe fiero di lui. Visnù un po’ meno.

E Brahmā? Starebbe a guardare, comodamente adagiato su un sofà.

Ancora questa congiura degli opposti: Flagg “le toccò una guancia e lei si ritrasse di stacco come se fosse stata toccata da un attizzatoio incandescente. Flagg sorrise e la toccò di nuovo. Questa volta lei si sottomise, rabbrividendo.”

Non riesco a capire (né mai ci riuscirò, temo) se Flagg sia consapevole della sua doppia natura: è il conduttore di calore per eccellenza. Per lui conferire o togliere energia è la stessa cosa. Ma anche per lui “Andrà tutto bene. E Randy Flagg sta per diventare presto papà.”

Alla fine del Capitolo 57, il Tom di Dio dimostra, pregando, che per essere graditi a Nostro Signore (chiunque sia questo nostro perennemente crucciato datore di lavoro) basta essere poveri non di spirito, ma nello Spirito, dentro di sé, come spiegava il mio teologo di fiducia (Padre Aldo Bergamaschi). Nulla fa allora più paura, quando si cessa di fare domande diverse da: cosa posso per te, my Sweet Lord?

L’autore descrive Pattume, l’orgoglio di tutti i piromani, e beniamino di Mr. Flagg: “L’azzurro dei suoi occhi era sbiadito al continuo bagliore del deserto, e guardarci dentro era come guardare attraverso buchi soprannaturali, extradimesnionali nello spazio.”

Nessuno più di lui ama l’equazione einsteniana che delinea la trasformazione dell’energia in materia (e soprattutto viceversa).

Il pessimo, ma tutto sommato simpatico ed effervescente, guaglio’ (in english: guy) s’imbatte in una testata atomica (che è ora nelle mani giuste, come no!): “facendo scorrere le mani sulla sua superficie curva, gli era sembrato così difficile credere che un pezzo di metallo di un freddo così mortale potesse avere il potenziale di tanto calore”. Infatti, dice Isaac Newton, e lo ripete Richard Panek, non occorre capire: basta credere.

Finalmente all’inizio del Capitolo 61, scopro la ragione del titolo italiano: “Lui era lo scorpione, il ragno solenne.” Di questo aracnide venefico il libro ha accennato in due punti, ma non ero riuscito ancora a comprendere. Ora rimane da carpire il motivo dell’ombra.

A pagina 549 del Capitolo 64, un estratto biochimico del sangue dell’autore: uno dei due sopravvissuti della missione spionistica, il caro, buon vecchio Stu, si trova azzoppato e febbricitante. Insieme al tonto Tom, è alla ricerca di una macchina per tornare alla base. Stu si augura che abbia tutto il necessario, benzina, candele e batteria okay, etc, e che non manchi la chiavetta d’accensione inserita nel cruscotto: “In televisione certo nessuno avrebbe avuto problemi a mettere in moto l’auto collegando chissà quali fili, ma Stu non aveva la più pallida idea di come fare.” Neanch’io, e, a occhio, neanche King. 

Gli eroi kinghiani non sono mai super, ma piuttosto del tipo meschino, modesto e di umile consizione umana, sociale e psicofisica. Con dei carismi. Anche Tom ce l’ha: è in diretta corrispondenza col Padreterno, o forse per il tramite dello Spirito Santo.

Ognuno di loro è specializzato in qualcosa che normalmente non serve, ma che diventa essenziale e salvifico in una situazione disperata. Tale carisma è innato o sorto in giovanissima età, e poi, pur simile a un handicap, anzi, fondandosi su di esso, diventa una specializzazione che guai che non ci fosse. Per tutti loro vale il proverbio arsan: ôgni cajòun gh à la so passioun. Tutti i coglioni hanno almeno un carisma.

Finalmente i due naufraghi s’imbattono in una “vecchissima Plymouth, del 1960 come minimo. Incredibilmente aveva tutti e quattro i pneumatici in buone condizioni, ma era piena di ammaccature e corrosa dalla ruggine.”

Se fosse stata una Cadillac nuova fiammante non sarebbe partita, ma ‘sta vecchia puttana che chissà quante ne ha viste, parte all’istante. Assurdamente non conteneva nessun cadavere da scaricare a terra!

Per quanto riguarda l’ombra, posso solo azzardare qualche ipotesi. Le poche volte che si cita questa parola, assume una nuance nergativa, come di quel qualcosa che nasconda il male, o che t’impedisce di vedere il bene, che ti reca freddezza, più che frescura. The Stand, titolo originale, La posizione vuol dire molto di più e anche parecchio di meno. Ma poi…

… a pagina, non a caso, 666, c’è la riposta al quiz: “Lui non muore mai”, disse Tom, “È fra i lupi, cavoli. Sì, i corvi. I serpenti a sonagli. L’ombra del gufo a mezzanotte e lo scorpione a mezzogiorno. Se ne sta a testa in giù con i pipistrelli. È cieco come loro.”

Strane considerazioni: “Loro sono stati il sacrificio. Dio chiede sempre un sacrificio. Ha le mani tutte insanguinate. Perché? Non so dirlo, non sono un tipo troppo acuto. Forse è una cosa che ci portiamo addosso…”

Un pregio è innegabile in questo e in altri libri che ho letto di King: non c’è da chiedersi ogni volta chissà che cosa l’autore abbia voluto intendere nel dire questo. Quello che King scrive lo si coglie al volo. Il suo è un essoterismo liofilizzato con del ketchup. I suoi libri sono densissimi, proprio perché gli sono stati tolti quei liquidi freschi che però trascinano i fenomeni in luoghi sperduti e ineffabili. Ogni cosa è al suo posto, fissa, come un portentoso mucchio d’ossa. Anche dopo migliaia di anni qualcosa rimarrà di quella gente descritta, non foss’altro che la sua immagine avvolta da pietra lavica.

King non va interpretato, va letto. Poi, se si vuole approfondire, c’ il resto della vota per farlo. Agh’è pió tèimp che véta!: C’è più tempo che vita!

Pochi gesti potrebbero essere definiti più banali, anche se originali e discutibili, quanto il proporre il Nobel a Stephen King, per questo libro più che per altri che ho letto. Banale deriva da ban, da cui bando, bandido, e perché l’informazione finirebbe per perdersi in questa Oubliette, io non esito a proporlo, hic et nunc.

Come It, e più ancora, questo romanzo corale e polifonico della serie kinghiana non pare svincolarsi dall’idea molto yankee (e molto umana) che la tua tribù ne avrà sempre un’altra antagonista. Infanti e Adulti, Nefiti e Lamaniti, Indiani e cowboy, yankee e non tali. E che chi ci controlla dall’alto forse non preordina le nostre azioni perché le conosce in anticipo. Se ho parlato di serie è perché alcuni scrittori oltre a lui, per fare un nome a caso, Balzac, hanno scritto un solo libro, Capitolo dopo Capitolo. Entrambi hanno questo in comune: esaminano la realtà del sogno e il sogno della realtà col medesimo cipiglio di visionari. Quella di King si potrebbe definire Una commedia quasi inumana. È quel quasi che ci salva.

Questo Andrà tutto bene che ci ronza nelle orecchie da vari mesi è l’augurio che si pone chi non prevede il futuro e che continua a ripetersi anche e soprattutto quando, dopo l’ennesimo morto non troppo dissimile da te, è pronunciato anche l’uomo nero, quest’essere plenipotenziario e del tutto privo di dignità.

I nostri patrioti vengono catturati e incorrono in una situazione non dissimile a quella che capita ai personaggi di Vita e destino di Vasilij Grossman, venata dalla solita tinta yankee. Un improvvisato ribelle si oppone alla brutalità dell’uomo di potere (l’unico possibile anarchico, secondo Pasolini) gridando: “Una volta eravamo americani!” gridò alla fine. “Non è così che si comportano gli americani. Io non sono niente, ve lo dico io, sono solo un cuoco, ma vi dico che non è così che si comportano gli americani, stare a sentire un pezzo di merda assassino con gli stivali da cowboy…”

Randall, anzi, Richard, Flagg (il cognome non è stato possibile verificarlo all’anagrafe) è stato mandato da qualcuno, non ricorda nemmeno lui chi. E si rivela quello che a prima vista non sembrerebbe: una bestia che soffre e che vuole riprodursi. Ricco d’ambizione e di null’altro, con qualche potere da eroe del male, ma nulla più, che s’angoscia né più né meno di come faremmo noi in circostanze simili, tipo una bomba radioattiva portatagli in dono dal fido Pattume, ormai ridotto ai minimi termini, senza più denti né capelli, come farebbe un gattino che reca in bocca al padrone il topolino catturato in giardino, dopo aver fatto di gran carriera cinque o sei piani.

Il tutto finisce col male che esplode, insieme a tutti quelli che gli sono accanto e non sono riusciti a svincolarsi in tempo.

Caro Mr. Richard (Panek, non Flagg), a lungo, durante la mia lettura qualcosa di me reagiva in riferimento alla natura di Mrs. Mother e di Mr. Flagg, e presto mi ero fatto un’idea molto semplice e chiara: si tratta di due fenomeni opposti. Il primo mi pareva un raggio di sole eterno, per quanto stantio, quindi, l’altro? Cosa c’è di più antagonista della luce? Il buio, ad esempio il buco nero, dove la luce viene attirata e in fondo, muore, come ogni cosa.

Non sono però convinto che la luce possa morire. C’è sempre l’ipotesi che essa sia composta da infinite ipostasi della sua propria natura, e che sia pressoché immortale. E se una cosa lo è, ed è anche infinita, non serve che ve ne sia più di una. Da qui nasce l’ipotesi bizzarra che vi sia un solo fotone che gira indefessamente, rendendo così variegato il cosmo.

Un solo fotone, un solo Dio. Il retaggio è una di quelle cose che non perdonano. Il mio, che è cattolico, ingiunge di perdonare il nemico, senza mai perdonare se stessi.

Quindi? Potrebbe andare, ma c’è un problema. Da Mr. Flagg emana freddezza, che significa che cattura il calore e poi lo disperde Altrove, senza restituirlo. Sembra rispettato, cosmologicamente, il primo principio della termodinamica. E se si rispettano i primi due, ne consegue che anche il terzo non debba essere trascurato: L’entropia assoluta di un solido cristallino alla temperatura di 0 K è 0. quindi il momento in cui la flag, la bandiera, viene alzata per dire: Stop!

Due sono le ipotesi più accreditate sull’ontologia del mondo, ambedue foriere di eternità: dal big bang si tornerà al big crunch, al punto 0.

Il secondo principio suddetto prevede il disordine assoluto della materia, al grado 0, previsto dal terzo principio. Stante il primo, ovviamente. Non c’è bisogno di capire del perché esista la gravitazione universale e la tendenza dei corpi a separarsi.

Oppure si tratta di misteri ugualmente e simmetricamente oscuri?

Detto in camera caritatis, io non comprendo affatto l’animo di Mr. Flagg, ma nemmeno quella di Mrs. Mother. Del resto non mi è nemmeno facile capire perché in americano si dica Mr. e Mrs., mentre in inglese alle stesse parole viene negato il punto.

C’è poi Mr. Lee Smolin, che prevede che i buchi neri siano in realtà dei buchi bianchi che, dopo aver prelevato una sufficiente dose di materia, la riproponga in un Altrove collegato all’ano del buco nero. È possibile qualsiasi ipotesi, ma scordiamoci per il momento di verificarne la probabilità.

Ecco dunque che il buco nero non è la negazione della luce: se così fosse quell’unico fotone non si farebbe catturare come un pollo all’interno di esso. Esso servirà pure a qualcosa, là dentro. E Mr. Flagg ha paura del… dentro. E non c’è nulla di più dentro del buco nero, il luogo più ordinato del mondo.

L’entropia ha paura del buco nero, della gravitazione. No, non ha paura. Ma si contrappone ad essa. Mr. Flagg è un fenomeno entropico. La sua fredda ilarità e la sua rabbia impietosa sono energie che sembrano mancare di un fine razionale: sono di quelle che tendono a separare, a distruggere, a polverizzare, a disperdere. Non sono espressioni di un sentimento. Sono gesti entropici che non generano caos, ma che annullano il reale, azzerandolo.

Mrs. Mother, come si diceva più sopra, tende invece a mantenere le cose vicine fra loro.

Richard, hai scritto che Newton giudicava le sue teorie comprovabili, ma inesplicabili. Lo stesso hanno fatto i geni che hanno continuato la sua ricerca.

Anche Einstein: perché la massa si trasforma in energia e viceversa? È relativamente facile stabilire come e in che misura. Ma il motivo vero risiede lassù, in Brahman, o quaggiù, in Atmān.

A chi potrebbe semplicemente obiettare che King non poteva aver in mente simili cabale cosmologiche, vorrei rammentare che lo scrittore originario del Maine è un gran bel fisico (alto circa 6 piedi e 5 pollici, con le scarpe). E non sempre sa quel che dice: per questo, è affidabile come sciamano.

Stephen King, L’ombra dello scorpione, Bompiani, 1991

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