Fontane DC - Artisti - SENTIREASCOLTARE

2022-07-23 01:47:12 By : Mr. Felix Cai

Una delle storie mitologiche irlandesi narra di quando San Patrizio arrivò nell’isola per convertire al cristianesimo i suoi abitanti. Durante il suo viaggio, il missionario incontrò il re Lóegaire, sovrano a cui poco tempo prima era apparso il semi-dio Cú Chulainn, mettendolo al corrente dell’infernale condanna che rischiavano i pagani. Una statua di Cú Chulainn è situata alla General Post Office di Dublino per commemorare i tragici e gloriosi eventi della Rivolta di Pasqua del 1916, quando l’edificio venne assaltato da un gruppo di rivoltosi per rivendicare l’indipendenza irlandese dalla corona. Aveva ragione la scrittrice Nora Roberts che in Tears of the Moon descriveva l’Irlanda come la “terra di poeti e leggende, sognatori e ribelli”, aggiungendo: “Tutti loro hanno musica intessuta attraverso e intorno a loro. Brani per ballare o per piangere, per andare in battaglia o per amare”.

Perimetrare il fenomeno Fontaines Dc significa addentrarsi nella storia e nella mitologia dell’isola britannica: Dogrel prende il titolo da antichi componimenti poetici formati da rime irregolari, A Hero’s Death ha in copertina il semi-dio sopracitato, mentre Skinty Fia è un’espressione irlandese con due accezioni, una elegante e un’altra vernacolare. Tre album in altrettanti anni hanno catapultato il quintetto in una piccola dimensione di culto, alimentata dalle nomination a Mercury Prize e Grammy.

La fenomenologia dei Fontaines Dc parte dalla commistione di suggestioni che la storia e la musica del gruppo riflettono. I cinque ragazzi si conoscono ai corsi di scrittura del British and Irish Modern Music Institute di Dublino, cominciano a uscire insieme e scoprono il comune interesse della poesia. Grian Chatten, Conor Curley, Carlos O’Connell, Conor Deegan III e Tom Coll hanno un metodo compositivo che sembra un rito collettivo: si ritrovano al pub davanti a una buona pinta di birra e fanno passare un quaderno su cui ognuno appunta i propri versi. Da questi ritrovi artistici prendono vita due chapbook – ovvero pieghevoli tascabili in uso sin dal sedicesimo secolo – che raccolgono le loro poesie: uno influenzato dai poeti della Beat Generation (Vroom), un altro da quelli della tradizione lirica irlandese (Winding).

Verso dopo verso, l’idea di musicare strofe e rime comincia a circolare e, anche se nessuna delle poesie scritte sia diventata ad oggi una canzone, i cinque artisti fanno capolino in una scena musicale dublinese piuttosto fiorente.

Nel suo prezioso volume Irish rock: Roots, personalities, directions (1987), Mark J Prendergast definisce la capitale della Repubblica d’Irlanda come “la città delle mille rock band”, una tradizione che affonda le radici negli anni Settanta e trova il suo apice negli anni Novanta, grazie anche al Celtic Tiger, il periodo di crescita economica della Repubblica che, a ridosso del nuovo millennio, supera il Regno Unito in termini di Pil procapite. In questi anni floridi le sovvenzioni agli artisti sono garantite dal Minister for Arts, Culture and the Gaeltachts (queste ultime sono le comunità in cui l’irlandese è riconosciuto come prima lingua), in un processo che nel 2017 porterà l’industria musicale a contribuire per 473 milioni di euro all’economia nazionale, offrendo lavoro a più di 11.000 persone (dati del report annuale dell’Irish Music Rights Organisation). Nei primi decenni del Duemila i musicisti irlandesi possono inoltre contare sulle sovvenzioni dell’Irish Arts Council e le iniziative dell’emittente radiofonica RTÉ 2fm.

Grazie anche al successo degli U2, tra i Novanta e i Duemila, Dublino si fa conoscere nel resto del mondo attraverso artisti come Frames, My Bloody Valentine, Boyzone e Westlife. Questa esposizione rientra nella dinamica “espansionista” musicale irlandese che era cominciata alla fine degli anni Settanta con i Pogues e prima ancora con i Thin Lizzi e Dubliners, per culminare alla fine del secolo grazie ai successi di Corrs, Cramberries, Kodaline, Flogging Molly e altri artisti. Per Áine Mangaoang, John O’Flynn e Lonán Ó Briain (Made in Ireland. Studies in Popular Music, 2021) uno dei tratti caratteristici della cultura musicale irlandese in contesto estero è la posizione di alterità nei confronti della tradizione classica europea, ampliamente favorita dai meccanismi derivanti dal colonialismo britannico.

Proprio quest’ultimo concetto sarà alla base del terzo album dei Fontaines Dc, che si affacciano nel 2017 su di una scena dublinese resa frizzante dalla indie wave dei Gilla Band (quelli che una volta conoscevamo come Girl Band), dall’indie folk dei Villagers e dal rap del giovanissimo producer Kojaque. Il quintetto di poeti prende il testimone assieme al post punk dei Murder Capital e al rock psichedelico dei Melts. I musicisti dublinesi possono esibirsi in molti locali – come il Workman’s Club, il Whelan’s, il Button Factory o il Garage Bar, la cui area fumatori è per il batterista Tom Coll “il vero posto da menzionare quando si parla di scena di Dublino” – e comprare vinili al Tower Records su Dawson Street o allo Spindizzy Records nel centro commerciale George’s Street Arcade. Infine, ci sono sale prova molto attrezzate come la Yellow Door e spazi polivalenti come la Chocolate Factory, che è allo stesso tempo un cafe, una sala concerti, un negozio e uno studio di registrazione.

“Saremo ispirati dalla musica”, da Caoineadh Áirt Úi Laoghaire della poetessa Eibhlín Dubh Ní `Chonaill

I Fontaines Dc riversano in sala prove l’amore comune per Girl Band e Pogues. Le intenzioni erano di suonare come “i Beatles in versione punk”, ma il risultato iniziale è un punk rock intriso di tradizione irlandese e geografia dublinese Nel gennaio 2015 il giornalista mancuniano John Robb avverte tutti in quello che probabilmente è il primo articolo sul quintetto: “La giovane band salvi il rock n’ roll”. Si chiamano ancora Fontaines e hanno le idee molto chiare, presentandosi così: “Siamo influenzati dalla musica alternativa britannica degli anni Ottanta e dal rock. Abbiamo tra i diciotto e i ventun’anni. Stiamo lavorando per pubblicare un Ep entro l’anno. Vogliamo riportare in vita il rock n’ roll”.

Nel frattempo, arrivano i primi live ed entra in scena il manager Trev Dietz. L’assetto è piuttosto basilare: Chatten alla voce, Deegan III al basso, O’Connell e Curley alle chitarre, e Coll alla batteria. Quest’ultimo accarezzava l’idea di gestire un’etichetta discografica sin dalle ricerche per la sua tesi al Bimm e nel 2017 riesce a metterla in pratica. Con un investimento di 200€ a testa, band e manager fondano la Trigger Party Records (attuale Skinty Records, che nel 2021 ha pubblicato la compilation di musica tradizionale irlandese Goitse A Thaisce: A Compilation of Irish Music Volume One).

Nel maggio 2017 i Fontaines fanno il loro debutto con il 7″ Liberty Belle/Rocket to Russia, a cui fa seguito nell’ottobre dello stesso anno Hurricane Laughter/Winter in the Sun. Quando esce Boys in the Better Land/Chequeless Reckless nel febbraio 2018 il gruppo ha già cambiato nome in Fontaines Dc, aggiungendo le iniziali di Dublin County per distinguersi da un’omonima band americana. Nel frattempo, il quintetto continua a macinare concerti e in uno di questi, a Londra, è raggiunto dal promoter Dan Roberts che, oltre a complimentarsi, comincia a far girare i 7″ autoprodotti dei Fontaines Dc. Così, nella primavera del 2018, la band riceve una mail da Jeff Bell della Partisan Records, che li va a trovare a Dublino mettendoli sotto contratto.

Siamo nel maggio 2018, l’anno di Joy as an Act of Resistance degli Idles, Tranquility Base Hotel & Casino degli Arctic Monkeys e Astroworld di Travis Scott. I Fontaines Dc lavorano al loro disco d’esordio, a novembre 2018 si esibiscono all’Iceland Airwaves per Kexp e, nel frattempo, si trovano già a fare i conti con un sold out dietro l’altro: la strada per un grande 2019 comincia a farsi in discesa.

I primi quattro singoli dei Fontaines Dc sono prodotti da Daniel Doherty e registrati agli studi Darklands di Dublino. Il 7″ d’esordio sorvola l’Atlantico in cerca di suggestioni rock n’ roll, pescando a piene mani dalla tradizione angloamericana: Liberty Belle ci racconta di una Dublino violenta e papà che dormono in una cabina telefonica, Rocket to Russia di donne cattive che se ne vanno troppo presto. Il secondo 7″ è puro rock n’ roll energico lasciato scorrazzare su di un’autostrada di ritmo e chitarre ariose che a volte sembra prendere l’uscita per la Manchester degli Oasis (Boys in the Better Land), in altri momenti quella per la New York degli Strokes (Winter In The Sun). Nei due brani appaiono i primi bozzetti della gente di Dublino che sarà la protagonista di Dogrel assieme alla stessa città.

Nei live di questo periodo compare in scaletta anche Peddler’s Toy, un brano mai pubblicato ma fondamentale perché mette in pratica in manera funzionale il concetto Beatles in chiave punk, unendo melodia ed energia. Inoltre, il cantanto di Chatten comincia a prendere forma: rimane incastrato nel mantra delle ripetizioni, si libera dalla metrica trovando riparo nell’irregolarità dei versi, è decadente e allo stesso tempo riflette un’attenzione all’effetto sonoro delle parole. Basti pensare a come suonano quelle del verso “Hurricane laughter, tearing down the plaster”, contenuto nel magnetico post punk che mastica i Fall e li getta in pasto all’uragano di Hurricane Laughter. Sensazioni che si avvertono anche nel rock n’ roll risucchiato dall’incubo oscuro di Chequeless Reckless: questa coppia di brani anticipa la potenza ipnotica e psichedelica che la band sarà capace di esprimere già nell’album di debutto.

I bozzetti della gente di Dublino contenuti in Dogrel tengono fede alle intenzioni della band, chiare nello “spogliare la poesia dalla pretenziosità della upper class rendendola utile e nostra è l’ossatura di quello che abbiamo fatto per diventare ciò che siamo”. Si tratta di gente che vive alla giornata (“you work for money and the rest, you steal”) come i tassisti che pisciano sulle ruote dell’auto (descritti da Leopold Bloom nello Ulysses di Joyce come “privi di volontà propria”), magari mentre “una pioggia diluviante avvolge gli avanzi sudici di foglie appassite”. Ci sono “stanze piene di specchi”, apatie generazionali (“I never really read, I spent the day in bed”) e ricordi di notti umide dublinesi dove una donna appena in contrata “gettò le scarpe nella borsa e ballò come in un sogno”.

Già, il sogno: per Calderón de la Barca la vita stessa lo era, per Shakespeare siamo fatti di quella stessa materia. Ma il mondo onirico che sarà una delle chiavi di A Hero’s Death è legato a un poeta irlandese da cui i Fontaines Dc prenderanno in prestito anche il titolo del disco, quel Brendan Behan che si domandava: “Chi è più privato e solo dell’uomo che ha realizzato il suo sogno?”.

“Eclettico”, “evocativo”, “una qualità di scrittura delle canzoni che le band possono impiegare anni per raggiungere”: la stampa impazzisce per Dogrel. Prodotto da Dan Carey, l’esordio dei Fontaines Dc mette in copertina una foto scattata nel 1967 nello storico circo Duffy & Sons, ancora itinerante per le lande irlandesi. Per Tim Putnam della Partisan Records “rappresenta la performance e, allo stesso tempo, la vulnerabilità della performance”.

Dal canto suo, il quintetto sembra tutt’altro che fragile. Dogrel proietta il sound della band su una dimensione più profonda e vortica attorno a un post punk che si lascia ibridare dall’indie rock britannico e dalla tradizione musicale irlandese. C’è l’energia dei Pogues e ci sono le linee di basso dei Joy Division; Chatten è un profeta urbano nel cui salmodiare scorrono il ghigno di Mark E. Smith e l’inquietudine di Ian Curtis. Ma, soprattutto, ci sono i Fontaines Dc.

Big in meno di due minuti mette tutto subito in chiaro. La sua urgenza sonora, il ritmo, i versi scanditi, le chitarre che sfuggono al controllo: “Dublino sotto la pioggia è mia, una città incinta con una mentalità cattolica”. I brani già editi raggiungono qui un apice drammatico: Hurrican Laughter dipinge un’apocalisse dietro il cantato marziale di Chatten, Boys in the Better Land straripa e imprime sulla mente dell’ascoltatore una modella “con la faccia come il peccato e un cuore come un romanzo di James Joyce”. Too Real lascia riecheggiare le sue domande in uno sciabordio di chitarre psicotiche. Chiudevamo in queste pagine la nostra recensione senza tergiversare: “Era da tempo che – in ambito musicale – il tricolore verde, bianco e arancione non sventolava con tale vigore”.

“La musica è un mezzo attraverso il quale esplorare i nostri sentimenti”, ci confessava O’ Connell in un’intervista del 2020. Quelle provate dai Fontaines Dc tra l’album d’esordio e il loro secondo disco sono sensazioni strane. Dogrel era stato, nelle parole della band, il tentativo di catturare suoni e rumori di Dublino, A Hero’s Death mette sotto i riflettori l’io narrante. Il disco comincia a prendere forma durante il tour che segue al debutto per Partisan Records e quando per la produzione viene nuovamente arruolato Carey – “ha capito forse prima e meglio di noi dove stavamo andando”, ci diceva O’ Connell –  l’alchimia è già tangibile.

Nel 2020 le città vuote, i lockdown, i dati sui contagi e decessi scandiscono i mesi di un annus horribilis. Anche il settore dell’industria discografica rimane fortemente segnato, con tour rimandati e dischi rinviati a data da destinarsi. Tra quelli usciti, ci sono i misteriosi Sault, Fetch the Bolt Cutters di Fiona Apple, i ritorni di Idles, Run the Jewels e Phoebe Bridgers, la svolta folk di Taylor Swift, la dance di Dua Lipa.

In appena un anno i Fontaines Dc mettono in mostra tutta la loro crescita: A Hero’s Death raccoglie i calcinacci dell’uragano Dogrel e li sparge su di un mare oscuro dove la psichedelia e l’introspezione prendono il sopravvento. Non a caso, il disco si apre con un ritornello che ripete “I don’t belong to anyone” e la title track è un treno in corsa ipnotico partito dal mantra “Life ain’t always empty”. Chatten spiega che A Hero’s Death bilancia sincerità e ipocrisia, lanciando apparentemente un messaggio positivo che con la ripetizione si apre a significati differenti e inaspettati: “È quello che succede ai mantra quando li testi su te stesso, ancora e ancora”.

In Televised Mind si fa avanti una delle influenze più rilevanti dell’album, quella del chitarrista Rowland S. Howard. A Lucid Dream sembra un omaggio a Big – il brano che apriva Dogrel – ma poi si sviluppa in tutta la sua oscura bellezza e frenesia, oltre a descrivere benissimo nel titolo il mood dell’intero disco. Anche A Hero’s Death è ancorato a una certa tradizione britannica, lo dimostra la smithsiana Oh Such a Spring, bagnata di un’ulteriore tristezza a la Lou Reed, e la lisergica You Said che sembra uscita da una sessione in studio degli Stone Roses. E poi il baritono sartriano contrapposto alle chitarre lancinanti di Living in America, il ritorno al futuro in quella I Was Not Born, intrappolata nella Berlino di Iggy Pop, e il finale etereo affidato alla coppia Sunny e No: difficile trovare un gruppo che in così poco tempo riesca a mutare fagocitando diverse suggestioni pur rimanendo se stesso.

Dogrel si era spinto fino al nono posto della classifica britannica, A Hero’s Death arriva al secondo. “Piuttosto che soccombere alla difficile sindrome del secondo album, i Fontaines Dc sono emersi in prima linea tra le giovani band importanti e vitali” scrive Q Magazine, mentre Pitchfork definisce l’album un “trionfo frenetico”, Mojo non riesce a scrollarsi di dosso il suo sound “gigante”, Uncut subisce il fascino del suo essere “introspettivo e profondamente ferito”.

I pochi concerti che la band riesce a fare nel 2020 ipnotizzano il pubblico, mentre nel marzo 2021 Conor Degan su Reddit parla già di un terzo album: “Abbiamo completato il missaggio del disco la scorsa settimana. Suona veramente da dio. È buffo pensarci ora ma quando abbiamo composto A Hero’s Death eravamo completamente assorbiti dal tour; al contrario, con questo lavoro eravamo totalmente riposati e consapevoli di ciò che stavamo facendo. La musica che ascolterete riflette questo stato d’animo e non vediamo l’ora di farvela ascoltare. È veramente un bel lavoro”.

I protagonisti di A Hero’s Death sono cittadini del mondo, non soltanto irlandesi: c’è chi è tornato dalla guerra, si è preso un proiettile, ha gettato la medaglia al valore e ora fa sentire le donne più giovani, chi “trasforma gli ideali in cabaret” e chi confesserebbe all’analista: “Oscillo in un sogno, cado in un sogno”. Ma tra i personaggi del disco ci sono anche i Fontaines Dc, consapevoli che “they just wanna come to your place and see you sing” e ambiziosi più che mai, “London’s fun, been and done, one for all, all for one; living in America”. Più in generale, il secondo album della band vive in un’inquietudine quasi radioheadiana (“Sei stato sull’orlo del baratro, quindi rallenta”) che ha il sapore di un lungo inverno (“And I wished I could go back to spring again”).

“La musica è un mezzo attraverso il quale esplorare i nostri sentimenti”, ci raccontava O’ Connell parlandoci di un album ancorato alla realtà e, allo stesso tempo, a “un escapismo, una fuga che può risolversi nella morte, anche in un senso prettamente metaforico”. Ecco perché il cantato di Chatten su Dogrel stava al centro della scena («dato che era un disco di racconti, le sue storie andavano ascoltate prima del resto»), mentre A Hero’s Death è un tentativo di trasmettere “la sensazione di non sentire più la terra sotto ai piedi; quindi il suono è come un oceano e la voce cerca di stare a galla”.

Nonostante i limiti imposti dalla pandemia, i Fontaines Dc riescono comunque a suonare e, allo stesso tempo infilare importanti riconoscimenti. Oltre alla candidatura ai Grammy nella categoria Best Rock Album, il quintetto si esibisce al Tonight Show di Jimmy Fallon ed è selezionato per una delle playlist che Thom Yorke cura per Sonos. Per il Record Store Day del 2021 la band pubblica Live At Kilmainham Gaol, un’esibizione dal vivo registrata nel luglio dell’anno precedente nell’ex prigione di Dublino.

In A Hero’s Death c’è una canzone che parla di un sogno lucido e la dimensione onirica sembra pervadere anche il suono del primo estratto dal terzo album dei Fontaines Dc. Jackie Down the Line muove da certi territori liquefatti e rugginosi solcati dai Nirvana – citati anche nel video del brano tra tappeti di rose e atmosfere traslucide – e dalla piovosa Manchester a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e primi Novanta. L’aura noir di Jackie Down the Line trova nelle parole di Chatten la sua natura: “In un mondo in cui è estremamente importante essere buoni e bravi, penso che sia più interessante scrivere dal punto di vista di qualcuno che invece non vuole essere né buono né sente il bisogno di fingere di esserlo. La canzone credo possa essere riassunta con la parola doom“.

A gennaio 2022 la band scopre le carte: Skinty Fia arriverà in primavera e sarà fortemente influenzato dalla ireshness, concepita sia nella sua dimensione esterna (il pregiudizio inglese verso gli irlandesi) sia in quella interna (le contraddizioni dell’Irlanda). Seguendo questa direttiva, un brano dal titolo I Love You potrebbe sembrare una dichiarazione d’amore e, invece, descrive il sentimento di un irlandese di fronte alle atrocità commesse nella sua terra, come la fossa comune scoperta nel 2017 al Tuam Mother and Baby Home. Chatten ha affermato a Rolling Stone: “Ho costruito una carriera sull’idea di riconnettermi con la cultura del mio paese: cerco di raccontarla, facendolo la capisco meglio e aiuto gli altri a fare lo stesso”. Sullo stesso livello emotivo si pone la title track, che deriva da un’espressione antica irlandese traducibile con “la dannazione del cervo” ma che viene utilizzata anche come imprecazione. In Skinty Fia è la diaspora irlandese ad aver ispirato il testo, mentre nel sound fa capolino un’elettronica mai stata così preponderante, lontana dall’atmosfera 90’s di I Love You.

“È un po’ come quando pubblichi il tuo primo album”, ci ha confessato Carlos O’Connell in un’altra intervista: “non sai cosa aspettarti, ma in questo caso abbiamo imparato a costruire brani che esaltano le nostre caratteristiche, spingendoci più in là in termini di scrittura, sia sul fronte musicale, sia su quello testuale”. Per il chitarrista Skinty Fia è un disco “cinematografico, evoca visioni, racconta storie che sono ancorate in narrazioni potenti”. O’Connell ci ha anche raccontato come siano gli “spazi” nel sound dei Fontaines Dc a determinare la possibilità di solcare nuove lande sonore, che in questo momento per la band signifca principalmente innestare un’elettronica muscolare a metà tra Nine Inch Nails e Death In Vegas nel post punk di Dogrel, già impreziosito in A Hero’s Death dalla psichedelia e da un’inquietante introspezione. A tutto questo bisogna aggiungere l’ambizione che, a furia di ascoltare i conterranei U2, è diventata parte del Dna di questa band.

Skinty Fia si alimenta della potenza che la band riesce a esprimere nel rallentare e tenere a freno l’esuberanza degli esordi: l’inizio è affidato al coro liturgico di In ár gCroíthe go deo, un brano in cui l’entrata della batteria e una variazione di accordi infondono redenzione. In Bloomsday l’emotività è straziante. Ma, con tutta probabilità, i momenti più incisivi (che fanno da contraltare a quelli catartici appena menzionai) coincidono con la distruttiva Skinty Fia, una nenia ipnotica e violenta, e la vorticosa e brutale Nabokov, che chiude un disco onirico e drammatico, capace di rispolverare l’organetto tradizionale irlandese in quella che sembra un’improvvisata The Couple Across The Way.

Sul piano testuale, il terzo album degli irlandesi è un viaggio nella psiche umana in cui scoppiano conflitti (“You’ve been through the war, but you’ve nothing to show”), serpeggia la disillusione (“I travelled to space, found the moon too small”) in un luogo in cui “c’è sempre una fottuta pioggia ed è sempre buio”. Lungo i brani di Skinty Fia sono disseminate delle vere e proprie gemme poetiche, come il momento in cui “You put on your coat and smile, saddest one I’ve seen for a country mile” oppure “Drinking with the tourists and fighting in front of them, oh to be young, Once more”.

Come scrivevamo in sede di recensione, per comprendere il fenomeno Fontaines Dc è necessario mettere da parte l’hype che aleggia attorno alla band e fare i conti con un apparato rock ‘classico’, basato su brani suonati alla vecchia maniera, che lambisce il pop melodico, con testi catartici e una voce che, vuoi anche per l’accento, sa trasmettere emozioni sia quando si lascia cadere nelle profondità baritonali, sia nei momenti in cui si alza di scatto in tutta la sfrontatezza di un Gallagher che ha il mondo in mano. Ma la chiave di tutto sono i brani, concepiti come flussi esoterici più che strutture modellate su sezioni: ecco perché stasi, ripartenze, climax e variazioni rendono vivide le sculture sonore concepite dal quintetto.

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